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Da: La boutique del mistero 4 страница




“Ma dite, dite pure, dottore...”

“Ebbene, vi pongo la questione in termini molto chiari. Se io, colpito da questo male in forma anche tenuissima, capitassi in questo sanatorio, che è forse il migliore che esista, mi farei assegnare spontaneamente, e fin dal primo giorno, fin dal primo giorno, capite? a uno dei piani più bassi. Mi farei mettere addirittura al...”

“Al primo?” suggerì con uno sforzato sorriso il Corte.

“Oh no! al primo no!” rispose ironico il medico “questo poi no! Ma al terzo o anche al secondo di certo. Nei piani inferiori la cura è fatta molto meglio, vi garantisco, gli impianti sono più completi e potenti, il personale è più abile. Voi sapete poi chi è l'anima di questo ospedale?”

“Non è il professore Dati?”

“Già, il professore Dati. E lui l'inventore della cura che qui si pratica, lui il progettista dell'intero impianto. Ebbene, lui, il maestro, sta, per così dire, fra il primo e il secondo piano. Di là irraggia la sua forza direttiva. Ma, ve lo garantisco io, il suo influsso non arriva oltre al terzo piano; più in là si direbbe che gli stessi suoi ordini si sminuzzino, perdano di consistenza, deviino; il cuore dell'ospedale è in basso e in basso bisogna stare per avere le cure migliori.”

“Ma insomma” fece Giuseppe Corte con voce tremante “allora mi consigliate...”

“Aggiungete una cosa” continuò imperterrito il dottore “aggiungete che nel vostro caso particolare ci sarebbe da badare anche all'espulsione. Una cosa di nessuna importanza, ne convengo, ma piuttosto noiosa, che a lungo andare potrebbe deprimere il "morale"; e voi sapete quanto sia importante per la guarigione la serenità di spirito. Le applicazioni di raggi che io vi ho fatte sono riuscite solo a metà fruttuose. Il perché? Può darsi che sia un puro caso, ma può darsi anche che i raggi non siano abbastanza intensi. Ebbene, al terzo piano le macchine dei raggi sono molto più potenti. Le probabilità di guarire l'eczema sarebbero molto maggiori. Poi, vedete? una volta avviata la guarigione, il passo più difficile и fatto. Quando si comincia a risalire, è poi difficile tornare ancora indietro. Quando vi sentirete davvero meglio, allora nulla vi impedirà di risalire qui da noi o anche più in su, secondo i vostri "meriti", anche al quinto, al sesto, persino al settimo oso dire...”

“E credete che questo potrà accelerare la cura?” “Ma non ci può essere dubbio! Vi ho già detto che cosa farei io nei vostri panni.”

Discorsi di questo genere il dottore ne faceva ogni giorno. Venne infine il momento in cui il malato, stanco di patire per l'eczema, nonostante l'istintiva riluttanza a scendere nel regno dei casi sempre più gravi, decise di seguire il consiglio e si trasferì al piano di sotto.

Notò subito al terzo piano che nel reparto regnava una speciale gaiezza, sia nel medico, sia nelle infermiere, sebbene laggiù fossero in cura ammalati molto preoccupanti. Rilevò anzi che di giorno in giorno questa gaiezza andava aumentando: incuriosito, dopo che ebbe preso un po' di confidenza con l'infermiera, domandò come mai in quel piano fossero tutti così allegri.

“Ah, non lo sapete?” rispose l'infermiera “fra tre giorni andiamo in vacanza.”

“Come: andiamo in vacanza?”

“Ma sì. Per quindici giorni, il terzo piano si chiude e il personale se ne va a spasso. Il riposo tocca a turno ai vari piani.”

“E i malati? come fate?”

“Siccome ce n'è relativamente pochi, di due piani se ne fa uno solo.”

“Come? riunite gli ammalati del terzo e del quarto?”

“No, no” corresse l'infermiera “del terzo e del secondo. Quelli che sono qui dovranno discendere da basso.”

“Discendere al secondo?” fece Giuseppe Corte, pallido come un morto. “Io dovrei così scendere al secondo?”

“Ma certo. E che cosa c'è di strano? Quando torniamo, fra quindici giorni, ritornerete in questa stanza. Non mi pare che ci sia da spaventarsi.”

Invece Giuseppe Corte - misterioso istinto lo avvertiva - fu invaso dalla paura. Ma visto che non poteva impedire al personale di andare in vacanza, convinto che la nuova cura di raggi gli facesse bene (l'eczema si era quasi completamente riassorbito) non osò opporsi al nuovo trasferimento. Pretese però, nonostante i motteggi delle infermiere, che sulla porta della sua nuova stanza fosse attaccato un cartello con su scritto:

"Giuseppe Corte, del terzo piano, di passaggio". Ciò non trovava precedenti nella storia del sanatorio, ma i medici non si opposero, pensando che in un temperamento nervoso quale il Corte anche piccole contrarietà potessero provocare una scossa.

Si trattava in fondo di aspettare quindici giorni, ne uno di più, ne uno di meno. Giuseppe Corte si mise a contarli con avidità ostinata, restando per ore intere immobile sul letto, gli occhi fissi sui mobili, che al secondo piano non erano più così moderni e gai come nei reparti superiori, ma assumevano dimensioni più grandi e linee più solenni e severe. E di tanto in tanto aguzzava le orecchie poiché gli pareva di udire al piano di sotto, il piano dei moribondi, il reparto dei "condannati", vaghi rantoli di agonie

Tutto questo naturalmente contribuiva a intristirlo. E la minore serenità sembrava fomentare la malattia, la febbre tendeva ad aumentare, la debolezza si faceva più fonda. Dalla finestra - si era ormai in piena estate e i vetri si tenevano quasi sempre aperti - non si scorgevano più i tetti e neppure le case della città, ma soltanto la muraglia verde degli alberi che circondavano l'ospedale.

Dopo sette giorni, un pomeriggio verso le due, entrarono improvvisamente il capo-infermiere e tre infermieri, che spingevano un lettuccio a rotelle. “Siamo pronti per il trasloco?” domandò in tono di bonaria celia il capo-infermiere.

“Che trasloco?” domandò con voce stentata Giuseppe Corte “che altri scherzi sono questi? Non tornano fra sette giorni quelli del terzo piano?”

“Che terzo piano?” disse il capo-infermiere come se non capisse “io ho avuto l'ordine di condurvi al primo, guardate qua” e fece vedere un modulo stampato per il passaggio al piano inferiore firmato nientemeno che dallo stesso professore Dati.

Il terrore, la rabbia infernale di Giuseppe Corte esplosero in lunghe grida che riecheggiarono per tutto il reparto. “Adagio, adagio per carità” supplicarono le infermiere “ci sono dei malati che non stanno bene!” Ma ci voleva altro per calmarlo.

Finalmente accorse il medico che dirigeva il reparto, una persona gentilissima e molto educata. Si informò, guardò il modulo, si fece spiegare dal Corte. Poi si rivolse incollerito al capo-infermiere, dichiarando che C'era stato uno sbaglio, lui non aveva dato alcuna disposizione del genere, da qualche tempo c'era una insopportabile confusione, lui veniva tenuto all'oscuro di tutto... Infine, detto il fatto suo al dipendente, si rivolse, in tono cortese, al malato, scusandosi profondamente.

“Purtroppo però” aggiunse il medico “purtroppo il professor Dati proprio un'ora fa è partito per una breve licenza, non tornerà che fra due giorni. Sono assolutamente desolato, ma i suoi ordini non possono essere trasgrediti. Sarà lui il primo a rammaricarsene, ve lo garantisco... un errore simile! Non capisco come possa essere accaduto!”

Ormai un pietoso tremito aveva preso a scuotere Giuseppe Corte. La capacità di dominarsi gli era completamente sfuggita. Il terrore l'aveva sopraffatto come un bambino. I suoi singhiozzi risuonavano per la stanza.

Giunse così, per quell'esecrabile errore, all'ultima stazione. Nel reparto dei moribondi lui, che in fondo, per la gravita del male, a giudizio anche dei medici più severi, aveva il diritto di essere assegnato al sesto, se non al settimo piano! La situazione era talmente grottesca che in certi istanti Giuseppe Corte sentiva quasi la voglia di sghignazzare senza ritegno.

Disteso nel letto, mentre il caldo pomeriggio d'estate passava lentamente sulla città, egli guardava il verde degli alberi attraverso la finestra, con l'impressione di essere giunto in un mondo irreale, fatto di assurde pareti a piastrelle sterilizzate, di gelidi androni mortuari, di bianche figure umane vuote di anima. Gli venne persino in mente che anche gli alberi che gli sembrava di scorgere attraverso la finestra non fossero veri: finì anzi per convincersene, notando che le foglie non si muovevano affatto.

Questa idea lo agitò talmente, che il Corte chiamò col campanello l'infermiera e si fece porgere gli occhiali da miope, che in letto non adoperava; solo allora riuscì a tranquillizzarsi un poco: con l'aiuto delle lenti poté assicurarsi che erano proprio alberi veri e che le foglie, sia pur leggermente, ogni tanto erano mosse dal vento.

Uscita che fu l'infermiera, passò un quarto d'ora di, completo silenzio. Sei piani, sei terribili muraglie, sia pure per un errore formale, sovrastavano adesso Giuseppe Corte con implacabile peso. In quanti anni, - sì, bisognava pensare proprio ad anni, - in quanti anni egli sarebbe riuscito a risalire fino all'orlo di quel precipizio?

Ma come mai la stanza si faceva improvvisamente così buia? Era pur sempre pomeriggio pieno. Con uno sforzo supremo Giuseppe Corte, che si sentiva paralizzato da uno strano torpore, guardò l'orologio, sul comodino, di fianco al letto. Erano le tre e mezzo. Voltò il capo dall'altra parte e vide che le persiane scorrevoli, obbedienti a un misterioso comando, scendevano lentamente, chiudendo il passo alla luce.

 

DINO BUZZATI





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